È legittimo il licenziamento del dipendente che ha pubblicato plurimi insulti ai suoi capi sulla propria pagina Facebook. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 27939/2021, respingendo il ricorso di un account manager di Tim. Confermata dunque la decisione della Corte di appello di Roma che nel novembre 2018, aveva respinto il ricorso contro il licenziamento “per giusta causa” di un addetto alla “Gestione della comunicazione pubblicitaria nazionale ad uso locale” (insegne della grande distribuzione, eventi, promozione locale dei negozi).
Il giudice di secondo grado aveva infatti ribadito il contenuto “gravemente offensivo e sprezzante” nei confronti delle sue dirette superiori e degli stessi vertici aziendali delle comunicazioni del lavoratore, a mezzo di tre e-mails e del messaggio sul suo profilo Facebook dell’ottobre 2016 (quest’ultimo legittimamente acquisibile, in quanto non assistito da segretezza per la sua conoscibilità anche da terzi)”.
Proposto ricorso, il dipendente aveva sostenuto, tra l’altro, l’illegittima acquisizione dei post riservati agli amici. Per la Sezione Lavoro però: “premessa l’esigenza di tutela della libertà e segretezza dei messaggi scambiati in una chat privata, nella fattispecie non sussiste una tale esigenza di protezione di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro diffuso su Facebook”. “Il mezzo utilizzato (pubblicazione dei post sul profilo personale del detto social) – prosegue la Cassazione – è, infatti, idoneo (secondo l’accertamento della Corte territoriale), a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone”.
Mentre con riguardo alla insubordinazione, la Suprema corte ha chiarito che “la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione aziendale: sicché, la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana riconosciute dall’art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli”.
Fonte: Il Sole 24 Ore del 14 ottobre 2021